Il caso Anwar El Ghazi. L’ ex centrocampista olandese del Mainz è stato licenziato dal suo club per aver espresso solidarietà, sui social, al popolo palestinese bombardato, a causa del conflitto con Israele.
“Sostieni cosa è giusto, anche se devi farlo da solo”, questo il commento finale del giocatore. Il post è stato l’ultimo capitolo di una storia che dice molto di più, rispetto alla “pubblicità” che sta avendo nel mondo del calcio.
Social e censura
El Ghazi è effettivamente rimasto solo, con la sua libertà di pensiero e parola brutalizzata, senza squadra e dunque senza un lavoro. Il caso El Ghazi è un sintomo, forse un simbolo: di quanto sia ipocrita il mondo professionistico del pallone, di quanto il calcio sia lontano dalla società che lo esprime. Il conflitto a Gaza, dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, ha scoperchiato il velo di banalità che avvolge questo paludato microcosmo: e basti pensare all’ennesima assegnazione di una competizione mondiale (quella del 2034, in Arabia Saudita), in barba ai valori nominali che il mondo del calcio sbandiera, per comprendere quanto imperi l’ipocrisia, alleata imprescindibile del vil denaro.
Diversi giocatori arabi hanno invero sfiorato il destino di El Ghazi: Noussair Mazraoui del Bayern Monaco (il calciatore invocò “la vittoria per i nostri fratelli oppressi”: gogna social, tante scuse e caso archiviato); Aissa Laidouni dell’Union Berlin (sotto indagine per aver postato il vessillo della Palestina); Youcef Atal (sospeso con solerzia, costretto a scusarsi); Ramy Bensebaini (stavolta difeso dal proprio club, il Borussia Dortmund).
El Ghazi, il capro espiatorio
La storia di El Ghazi è la più eclatante: dai resoconti pubblicati, sembrerebbe che il Mainz abbia tentato (maldestramente) di insabbiare o minimizzare il caso; la società aveva chiesto al giocatore un video di scuse; hanno invece ottenuto un lungo post in cui il calciatore condannava la barbara uccisione di civili in Israele e Palestina. El Ghazi era stato prima sospeso, poi reintegrato: questo perchè la società avrebbe pubblicato un comunicato sul fatto che il suo tesserato avesse preso le distanze da quanto pubblicato a suo nome, che se ne fosse pentito, e rinnegasse quanto affermato in precedenza.
La storia diventa così ancora più contorta: El Ghazi smentisce il suo club, afferma la sua posizione contro la brutalità di ogni guerra; un intervento a gamba tesa contro la violenza in generale, contro l’uccisione di civili, l’islamofobia, l’antisemitismo, il genocidio, l’apartheid, l’occupazione e l’oppressione dei popoli.
Libertà di parola?
Al di là della tristissima conclusione della vicenda, il senso di questa storia è la mancanza di libertà espressiva per calciatori o addetti ai lavori: ostentare un pensiero critico, politico, è sempre mal visto, quando non condannato apertamente. L’ennesima dimostrazione che non può esservi convivenza pacifica tra calcio e società, fino a che la libertà di esprimersi non sarà pienamente riconosciuta: i calciatori non sono politici, è vero; restano però cittadini ed individui inseriti nel tempo e nello spazio, ed ogni scelta effettuata può essere anche una scelta politica.
Ma qual è il livello di conflitto consentito all’interno di questo status politico? Basso, molto basso, a giudicare da quanto visto: El Ghazi ha rinunciato a un pezzo della sua carriera per dei post; il calcio, difatti, premia il conformismo e l’appiattimento valoriale. Ci vuole un profilo da condottiero, un guascone alla Maradona, per sottrarvisi e sopravvivere, in qualche modo, a livello professionale. El Ghazi è il classico pesce piccolo; un pesce però che non ha voluto farsi inscatolare, come tanti, troppi: tonni d’allevamento, pagati a peso d’oro.