La morte di Giorgio Napolitano chiude forse definitivamente l’epoca degli ex comunisti istituzionali, quei figli di Togliatti, Ammendola, poi Berlinguer, che dall’Homo Novus passarono alla strenua difesa dello status quo istituzionale.
Napolitano, grande vecchio, erede burocratico del PCI che fu, si discostò difatti negli anni dalla teorica riflessione sulla centralizzazione dello Stato, rivolgendosi piuttosto alla centralità delle istituzioni nell’organigramma democratico e repubblicano.
King George, l’atlantista
“Re Giorgio”, dissolta nei decenni la messianica “speranza” verso la palingenesi comunista, e con essa, come detto, l’attesa ideale di un nuovo uomo ecumenicamente laico, al servizio del prossimo, ha innestato con fiducia il pilota automatico della real politik più prosaica: ha quindi guardato con maggior interesse al realismo politico (un realismo di stampo “migliorista”) il quale, con gli ultimi anni della sua Presidenza, si è fatto a dir poco machiavellico.
Un machiavellismo dunque permeato dalla ricerca del fine ultimo, inteso civicamente, nel senso di una eterogenesi dei fini volta alla stabilità dell’ordine costituito, di stampo costituzionalista, nell’alveo d’un europeismo estremo, filo-atlantista. Ergo, il fine d’ogni compromesso doveva essere la stabilità del Potere, il suo fedele ancoraggio nell’architrave delle istituzioni europee.
Comunismo minimalista
Può dirsi che la politica di Napolitano fosse segnata da una parcellizzazione del senso comunista, con l’estremizzazione dell’appartenenza partitica (di una centralità indiscussa del sistema partitico), nel segno di uno scarto: prima generazionale, con gli epigoni togliattiani che, dalla recherche di un nuova “Comunità-Stato” possibile, passarono negli anni all‘aventino berlingueriano delle riforme (ormai) impossibili; poi politica tout court, con il futuro agognato (e socialista) a stemperarsi nell’unica garanzia possibile, quella di uno Stato traballante, macilento e tarato, da doversi difendere ad ogni costo, anche sacrificando la propria Storia (personale e di appartenenza politica).
Il perseguimento lucido, cinico, a tratti anche baro, da parte del Presidente Napolitano, dello status quo del nostro sgangherato sistema politico, del suo vassallaggio verso le istituzioni comunitarie, hanno fatto di lui quello che il giurista politico Carl Schmitt definiva il “custode estremo” della Costituzione, una sorta di commissario che poteva arrivare a forzare i vincoli democratici e costituzionali, pur di salvare l’ordine costituito.
Il Presidente Assoluto
Napolitano è stato un “custode” quasi reazionario, arbitro indiscusso della lunga notte partitica italiana, il croupier che all’occorrenza truccava il mazzo, dando le carte secondo il vezzo del momento, dichiarando chiusa una mano quando doveva, in modo definitivo ed unilaterale (remember l’ultimo Governo Berlusconi, con lo spread a dettar legge e Napolitano a crear Monti?). In tal senso è con la sua persona che, in concreto, l’istituzione arbiter per eccellenza, ovvero la Presidenza della Repubblica, ha assunto la (de)formazione attuale: non più potere terzo, a garanzia degli altri, ma Potere al di sopra dei poteri.
Fior di costituzionalisti ancor oggi si interrogano sulla gestione interventista ed accentratrice di Napolitano come King George del Quirinale: quel che è certo, è che il testamento politico dell’Ultimo Comunista, mostra sfumature in chiaroscuro che mai si potranno chiarire del tutto. Adieu, King George, che la Repubblica (o il Regno?) ti sia lieve.