ll gioco del calcio, e tutte le minuzie che ci gravitano attorno, si possono spiegare con la razionalità fino ad un certo punto.
Dell’umano scibile, il calcio è la cosa più seria tra le cose frivole.
Bandiere al centro
Una società calcistica è una realtà economica, pur sempre afferente al mondo delle imprese. Verissimo, ma fino ad un certo punto: si ha sempre l’impressione ardita che entro i confini erbosi del campo, numeri, statistica, tattica e bilanci non bastino, non riescano a spiegare il tutto, l’alchimia del fenomeno. È presente, nel mondo del balòn, un fattore altro, un costante elemento trascendente ed emozionale, impossibile da essere contabilizzato: che si chiami carisma, ascendente, carattere, è presente un qualcosa di aggiuntivo, che lega gli elementi creando la chimica giusta.
Possiamo parlare di “bandierismo”, quella tipica espressione di immedesimazione tra un player, un giocatore, e la maglia che questi riveste (sovente per lunghi lustri), indossando il totem, in rappresentanza dell’archetipo.
Totti, Maldini & Co.
Fu uno degli addii al calcio più “tragici” (in senso classico, aulico, da catarsi greca): l’Olimpico degli Eroi era una caldera di pathos e lacrime, quando il Capitano apppese le scarpine al punto più alto della sua carriera in giallorosso: Totti salutava il popolo romano, da senatore indiscusso, imperatore delle folle domenicali. Oppure basti pensare all’ultimo guizzo di Maldini, lassù nel tempio sacro del grande calcio, quel San Siro che infiniti addusse lutti agli avversari: il suo defenestramento, con gli ammerecani nuovi padroni del corso rossonero (senza tanti ripensamenti), ha provocato un vero terremoto, dentro e fuori la squadra. E quanti altri nomi, da Del Piero a Buffon, passando per Maradona, Messi e Cruijff: bandiere di un calcio mitologico, legato agli affetti più che al (solo) portafoglio, eppure. Eppure il sistema-calcio è cambiato, ingrigitosi com’è nel solco di denari da inseguire, sponsor da accalappiare, plusvalenze ed investimenti altri da inseguire.
Un calcio ai numeri
L’algoritmo applicato al calcio: i cantori della “nuova era” sabermetrica (analisi della metrica applicata allo sport professionistico) diranno che ci vogliono plusvalenze, spese al bilancino, apertura ai mercati esteri, diritti televisivi e merchandising sfrenato; che la tradizione e le coppe, da sole, non bastano più, che non c’è solo quello “ormai”.
“Ormai” è la key word, che semanticamente divide il pallone in due emisferi distinti (o quasi) e che nasconde, nemmeno troppo, una differente interpretazione del nostro tempo. Nel calcio “finanziario”, vincere non è l’unica cosa che conta: i trofei sono uno strumento, l’obiettivo è l’espansione del mercato, costante e senza requie. Non è questione di calciomercato, ma nuovi mercati, di espansione globale.
Nella costruzione di un brand societario, di una squadra vincente ed appetibile, una casella da riempire, ormai fondamentale, è quella dell’heritage: con questo termine deve intendersi il brand value storico e tradizionale di ogni azienda, spesso impalpabile, talvolta aneddotico. Un complesso di storia, etica, simboli, longevità: la cosa più difficile da costruire, perché l’heritage si radicalizza nel tempo, non si inventa; può solo sedimentare, si può unicamente ereditare.
Le bandiere assolvono a questo compito: a fidelizzare chi ama, tifa, soffre e gioisce per la propria squadra; chi attraverso la maglia partecipa alla storia stessa del proprio team. Il calcio del futuro dovrà tenerne conto, necessariamente: il vento cambia, ma le bandiere continuano a garrire.